
Riceviamo da Gianni Paolo Mirenda, lightng designer, che ci regala un ricordo di Guido Levi
la mia carriera nelle luci teatrali inizia a Firenze nel dicembre del 1979 e in quegli anni la figura del lighting designer nel teatri d’opera era sovrapponibile al capo elettricista. Raramente, e solo per registi a cui il sovrintendente non poteva dire di no, era concesso un lighting designer ospite come ad esempio a Luca Ronconi era concesso Sergio Rossi. Quando il” mago delle luci” Guido Baroni va in pensione, il direttore artistico subito impone Guido Levi come nuovo astro nascente. Inizia così una collaborazione di alcuni anni tra noi e il “capellone con la giacchetta di tweed” (così lo avevamo soprannominato).
Il carattere schivo è subito il suo segno distintivo, il suo essere parte del gruppo dei tecnici invece che degli artisti lo rendeva vicino e conquistava subito la simpatia dei ragazzi di palcoscenico. Resta nella memoria di chi c’era la volta in cui, in Finlandia con il regista Lorenzo Mariani, Guido fece un gran colpo sui ragazzi del festival di Savonlinna quando lo videro usare un telo riflettente per illuminare la chiglia del Vascello fantasma: ci fu un moto di stupore e di approvazione, ma soprattutto divenne una specie di idolo da imitare, tanto che l’anno dopo alcuni dei tecnici si presentano al lavoro, di nuovo con lui, vestiti con giacca, capello lungo, busta di tabacco e cartine per farsi le sigarette!
Guido aveva un approccio molto artigianale all’illuminotecnica: non si presentava mai con una pianta luci e questo creava disagio, soprattutto a noi che dovevamo gestire più palcoscenici contemporaneamente perché non riuscivamo ad avere i noleggi… Lui arrrivava il primo giorno di montaggio, si piazzava in palcoscenico, parlava col capo macchinista, capiva gli spazi e poi alla mensa – spesso io e lui seduti di fronte a un caffe – si disegnava sulle tovaglie di carta le americane luci e i proiettori. Io poi correvo in palcoscenico con queste e organizzavo il lavoro (facendo attenzione a mettere sempre almeno quattro circuiti in più, perché poi c’erano sempre delle versioni più estese). Peccato non avere ancora questi appunti autografi!
Un anno (non ricordo bene quando) il sovrintendente affida la scenografia di un balletto a un pittore che non aveva nessuna preparazione scenografica e, per aiutarlo, gli disse che avrebbe scritturato il miglior LD e Guido, che stava già allestendo un’opera, si trovò invischiato nel progetto. La sera, seduto accanto a me in sala durante la prova luci mi dice “Gianni non ho mai fatto un balletto, non so da che parte iniziare, aiutami tu che ne fai tanti!” Lui, a me! Alla fine monteremo 300 proiettori piazzando fonti luminose ovunque con le quali lui giocò: la sua caratteristica era mixare le gelatine sui proiettori, non c’era mai un solo colore sui suoi apparecchi, e il più delle volte se su un circuito c’erano tre proiettori, ognuno aveva due o tre gelatine diverse. Io, per canzonarlo, gli dicevo “Guido il 202 vuoi che lo metta vicino alla lente o per ultimo?” e lui ridendo diceva che non dovevo prenderlo in giro.
La sua storia artistica ha avuto picchi immensi difficilmente riproducibili nel momento attuale, una carriera che mai nessuno ha avuto nel nostro campo. Conservo poi un ricordo indelebile non legato alla professione: Guido per qualche anno ha girato con un orologino di plastica rosso che suo figlio gli aveva regalato. Me lo mostrava orgoglioso, come fosse un rolex d’oro.
